Giorgio Morandi rappresenta un unicum nella storia dell’arte italiana,
Quando al Museo del Novecento, dopo aver attraversato l’immanenza storica di Pellizza da Volpedo, la potenza visionaria dei primi futuristi come Balla e Boccioni e dei cosiddetti secondi futuristi come Depero, si entra nella stanza di Morandi si ha la netta sensazione di entrare in un tempio. Un tempio del silenzio e della contemplazione.
Morandi si sa, rappresentava solo bottiglie, bicchieri e paesaggi di campagna.
La ripetitività dei soggetti era per il maestro Giorgio non un limite ma il mezzo ideale per ritrarre l’essenza dell’oggetto: “Non vi è nulla di più astratto del reale” diceva.
Talmente non catturato dalla maya della fisicità Morandi cercò con uno dei più grandi esempi di coerenza di estrapolare l’anima stessa degli oggetti o dei paesaggi posti di fronte a lui, e l’anima vuol dire il ricordo.
Il ricordo animico di una bottiglia, il ricordo animico di una casa di campagna: il ricordo di un volume fisico.
La grandezza, l’unicità, l’esser precursore di un modo nuovo di cogliere la realtà fanno di Morandi il Cezanne italiano.
Amo particolarmente i precursori della “vista animica”, probabilmente lo si può notare da cio’ che dipingo io e da cio’ che pretendo che una grande opera d’arte, per esser degna di tale nome, deve suscitare: un’iniziazione alla capacità di vedere senza gli occhi, ad ascoltare senza udito, al toccare senza tatto, annullando l’intelletto e il concettualismo, i mostri del nostro tempo che tutto divorano e tutto distruggono.
Giorgio Morandi ne fu uno dei grandi profeti: trascorrere del tempo sulle sue opere è una forma di laica e sacra preghiera silenziosa.
L’Arte come iniziazione al sentire dell’anima.